Sono nel cuore dell’Australia, nel mezzo
dell’outback polveroso con i suoi arbusti ostinati capaci di proteggere quei
rivoli di linfa che sono la loro anima con la naturale tenacia della vita che
si modella agli eventi.
Uluru - Ayers Rock nella denominazione non
aborigena – ha una storia affascinante, nato dalle montagne e dal mare, come un
eroe mitologico.
È fatto di sabbia che vento e acqua hanno sfregato oltre 500
milioni di anni fa da monti primordiali e che poi il
mare a sorpresa ha sommerso adagiandovisi con tutto il suo peso fino a renderla
pietra. Quindi, prosciugato anche il mare, la terra ha preso a contorcersi,
sollevando e inclinando quel blocco di sabbia indurita senza spezzarlo. E di
nuovo il cielo
per i successivi 300 milioni di anni l’ha plasmato, scanalandolo, scavando grotte, colorandolo di ferro rosso.
per i successivi 300 milioni di anni l’ha plasmato, scanalandolo, scavando grotte, colorandolo di ferro rosso.
Per gli Aborigeni della zona, gli Anangu, sono
stati invece gli spiriti ancestrali con le loro battaglie nel tempo del sogno
che hanno forgiato Uluru. Qui ancora dimorano gli spiriti degli antenati
creatori e degli animali – emu, serpenti, lucertole, cani selvatici… – che con
loro hanno percorso e tramutato questa terra. Questa terra è sacra.
Ci avviamo in fuoristrada nell’outback, terra piatta a destra, a sinistra, davanti e dietro di noi e una sola sporgenza ancora lontana e piccola, ma che emerge e si staglia ben definita su quella terra appena increspata.
Arriviamo per il tramonto perché vogliamo vedere Uluru accendersi di fuoco.
Imbocco un sentiero alla ricerca di un punto di osservazione. Lo spazio è tanto, la gente dispersa così da sembrare poca. Mi fermo a guardare.
Un Giapponese vicino a me scatta catene di
foto, io, il mio sguardo fisso su Uluru, non ho ancora colto variazioni di
sfumature negli ultimi dieci minuti da che il sole ha cominciato a calare.
Resto in attesa dell’esplosione di luce che mi sono immaginata, il sole intanto
tocca la linea dell’orizzonte e comincia ad affondarvici, sempre più
velocemente. Ecco, Uluru comincia a virare al rosso intenso per qualche
secondo, io continuo a guardare bramosa di essere stupita, poi di botto
s’incupisce anziché accendersi.
I raggi del sole si stanno ormai appiattendo,
poi in fretta scompaiono.
Dietro di me Kata Tjuta - le Olgas - rocce sorelle di
Uluru, risaltano con le loro morbide forme ora nere contro il cielo aranciato.
Ci riproviamo con l’alba.
Arriviamo in tempo
per seguire secondo per secondo i raggi del sole mentre lambiscono Uluru,
accendendone il rosso annerito della semioscurità di un giallo-arancio ma immediatamente
illuminandolo del suo arancione deciso. È appena l’alba, ma Uluru mi si
presenta già come l’ho visto ieri per la prima volta, in pieno sole.
Niente fiammeggiamenti dunque, né al tramonto,
né all’alba. Forse dipende dalla consistenza dell’aria, dall’umidità, dalle
nuvole che mettono il cielo in subbuglio creando ombre e chiaroscuri.
Uluru resta comunque solenne. Naturalmente
vorrei arrampicarmici per conoscerlo da vicino e si può fare, c’è un percorso
tracciato. Ma agli Aborigeni non piace vedere la gente scorrazzare su e giù per
la loro montagna sacra.
“Quando ero piccolo mi divertivo ad andare su
Uluru con i miei amici Aborigeni!” mi dice l’Australiano importato Robert di
Alice Spring, “ In realtà neanche agli Aborigeni importa più…”
Ma i suoi occhi acquosi affettatamente
spalancati non mi convincono, trasudano falsità.
Allora resto ai piedi di Uluru e faccio il
giro tutt’attorno alla sua base per quei nove chilometri, osservando graffiti e
scrutando grotte, rispettosa, in omaggio alla sacralità della vita.
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