I nomadi della Mongolia vivono per la maggior
parte dell’anno in piccoli nuclei familiari, isolati tra montagne e pianure. Si
ritrovano però regolarmente in estate in una grande festa di sport, giochi e
incontri, dove si affermano talenti, nascono amicizie e si fondano matrimoni:
il Naadam.
La festa dura alcuni giorni e si muove attorno a gare di tiro con l’arco, lotta e sfrenata corsa a cavallo su quelle terre piatte, distese verso un orizzonte sfumato.
Arrivo a piedi allo stadio di Ulaangom, cittadina nel nord-ovest della Mongolia, mischiata a
una folla di persone abbigliate in tuniche ricamate.
All’ingresso tanti gruppi hanno steso delle coperte in un breve prato prima delle tribune e si sono già accomodati a giocare a carte e a chiacchierare, altri (me compresa) si fanno fotografare davanti a sfondi che raffigurano picchi innevati e cavalieri.
Mi scelgo un posto in tribuna mentre inizia la
presentazione degli atleti. Sfilano nello stadio nell’eccitazione generale di
pubblico e organizzatori.
Mentre osservo la parata noto proprio di fronte a me,
nelle tribune opposte, il settore riservato alle autorità e al presentatore che
al microfono sta probabilmente dando il benvenuto e annunciando il programma
delle gare. Dietro di loro c’è un gran viavai di persone, scambi di battute,
fotografie. Forse sono giornalisti? Mi incuriosisco e vado a dare un’occhiata.
Ci si può muovere liberamente nello stadio, i
posti non sono numerati e ci si può spostare dove si crede. Mi avvicino con
aria circospetta a quella che ritengo la tribuna d’onore, dubitando che mi
faranno entrare, soprattutto quando mi accorgo che c’è un uomo ritto al suo
ingresso in cima alla gradinata.
Salgo comunque e gli chiedo il più gentilmente
possibile in un inglese accompagnato da gesti esplicativi se posso entrare per
vedere meglio. Mi risponde facendosi da parte e lasciandomi il passaggio, come
se fosse la cosa più normale che si potesse chiedere.
Così mi ritrovo tra le autorità e i coordinatori
delle gare che stanno sfogliando programmi e direttive. Comincio anch’io a
farmi fotografie con gli uni e gli altri, poi mi siedo a seguire le gare di
lotta che stanno per cominciare.
Nel mezzo dello stadio hanno sistemato tende e tavoli, e alcuni anziani vi stanno prendendo posto. Vedo una piccola troupe televisiva con microfoni e telecamere che si aggira tra di loro a intervistare, sento il grande fermento, come vorrei essere anch’io là in mezzo!
Mi guardo attorno, osservo di nuovo gli organizzatori
indaffarati, e di nuovo mi soffermo su quello che sembra uno
dei capi da come corre dal tale e dal tal
altro senza perdersi nulla di quel che succede. Ha l’aria simpatica, si muove
rapido ed efficiente ma senza ansia.
Come mi capita a tiro lì nella tribuna
principale lo chiamo: ” Mi scusi” gli chiedo nel mio inglese figurato “ sono
una giornalista italiana, mi piacerebbe andare proprio sul prato dello stadio
per seguire le gare più da vicino… vorrei fare foto e vedere bene i lottatori…
si può? Sarebbe fantastico se potessi…”
Non ho ancora finito l’ultimo gesto che lui si
stacca il cartellino che ha appuntato sul petto, me lo dà e mi indica con
grande semplicità nel suo mongolo figurato di andare pure sul campo, tra i
lottatori, dove voglio…
!
Sono senza parole, lo abbraccerei ma mi limito
a stringergli la mano il più calorosamente possibile mentre la mia gratitudine si
riversa su di lui intrattenibile dai miei occhi stupiti.
Ancora, non potevo fargli una richiesta più
normale!
Allora scendo in campo!
Vado alla tenda degli arbitri dove mi
accolgono sorridenti, sbircio le liste degli incontri insieme ai lottatori,
vorrei farmi spiegare, ma i gesti qui non bastano più.
Accetto l’invito di
sedermi tra di loro e mi sistemo sull’erba.
Entrano i lottatori in fila e si dirigono verso il
centro del campo per una breve cerimonia che avvia ufficialmente le gare.
Così, questi uomini massicci e corpulenti si producono
in un balletto di saluto con lente giravolte e inchini, come danzatori classici
su un palcoscenico: ma non sono affatto comici, ogni loro movenza è stranamente
leggiadra, i loro sguardi seri e sereni, alcuni ispirati.
Ritornano poi ad allinearsi a ridosso delle
tribune, pronti ora a combattere: via alle lotte!
Varie coppie scendono in campo a sfidarsi, chi
vince prosegue all’incontro successivo.
Mi avvicino a due contendenti tenendomi più o meno alla
stessa distanza dell’arbitro, mi accuccio sul prato per guardarli negli occhi e
muovermi svelta senza intralciarli.
I due si stanno studiando, senza sfiorarsi si
osservano muovendosi lentamente, pronti a schivare e a contrattaccare. Ma per
un po’ nessuno osa lanciarsi: un accenno all’azione ogni tanto, una finta, ma
senza contatto, solo per vedere le reazioni dell’altro.
Poi finalmente uno dei due sferra un allungo e
agguanta il braccio dell’altro e la vera lotta comincia. Tiri, spinte, ancora
giravolte per non perdere l’equilibrio, pochi secondi di corpo a corpo,
separazione per una nuova rincorsa: si mira alla vita, ad agguantare le braghe
dell’altro per sollevarlo e stenderlo.
Certe lotte durano vari minuti e i due si prendono e
rilasciano ripetutamente, finché i loro corpi luccicano di sudore e i loro
occhi cominciano a velarsi per lo sforzo.
Io seguo ogni movimento, ogni stretta
di pugno, ogni sbuffo affannato, finché il meno stanco s’impone e con una mossa
risolutiva afferra l’altro e lo schiaccia schiena a terra.
Poi il vinto si rialza e tranquillo ritorna verso le
tribune, il vincitore corre al centro del campo e con semplicità, senza
atteggiamenti trionfali, va a rendere omaggio agli anziani accettando con un
nuovo balletto i loro elogi.
Vincere o perdere sono gli avvenimenti più normali.
Umanità che si cerca, ascolta, offre, riceve,
si confronta, ringrazia… con naturale umanità.
Con le ragazze della TV |
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