domenica 7 maggio 2023

Sul massiccio del Monte Rosa

Dal rifugio Quintino Sella a Punta Indren, attraverso Naso del Lyskamm, Corno Nero, Ludwigshöhe, Punta Zumstein, Punta Gnifetti, Balmenhorn, Piramide Vincent


Ancora sdraiata nella mia porzione di letto nel rifugio Quintino Sella, scorgo un lembo di cielo chiaro dalla finestrella. La mattina si preannuncia luminosa. Mi sento in parte tranquilla e desiderosa di uscire sulla montagna, in parte nervosa al cospetto dell’ignoto e dell’imprevedibile. Non posso restare a lungo coricata, sento accumularsi energia dentro di me via via che il mio corpo si sveglia. È quasi con un balzo che mi metto a sedere e poi mi lascio scivolare ai piedi del letto il più silenziosamente possibile per rivestirmi e andare a incontrare il giorno.

Al tavolo della colazione, nel brusio eccitato del rifugio, Flavia si regge la testa su una mano, gli occhi abbassati, pallida ed esausta. Non si sente bene e non ha dormito e, per il momento, desidera solo tornare a riposare.

Il nostro programma per la giornata non sembra realizzabile: quelle immagini inventate nella mia mente che ero pronta finalmente a ridefinire e completare cominciano a sfocarsi e sembra debbano dissolversi. Vorrei trattenerle, ancora non riesco a rinunciarci e a lasciarle andare, ma come?

Con Alessandro, cerchiamo qualche soluzione alternativa che possa coinvolgere anche Flavia e ci permetta di salvare la giornata. Aspetteremo che si riprenda e poi scenderemo a punta Indren lungo il ghiacciaio, magari con qualche breve divagazione. Flavia ci pensa, ma non accetta che restiamo ad aspettarla, per quanto tempo poi? Scenderà tranquillamente in giornata lungo la via percorsa ieri, evitando il ghiacciaio, e ci rivedremo domani.

Non c’è il vento di ieri che ci aveva fatto ritardare la partenza verso il Castore. Il ghiacciaio si apre davanti a noi, l’aria gelata mi punge gli zigomi e gli occhi. Dobbiamo scaldare i muscoli, acquisire un ritmo costante e, a poco a poco, sentirò i polmoni distendersi e l’ossigeno raggiungere ogni cellula del mio corpo, spingendomi in avanti.

La neve è dura, ed è un piacere sentire i ramponi afferrarla e avvinghiarla dandomi una stabile base di lancio.

Verso il Naso del Lyskamm
Diretti al Naso del Lyskamm, raggiungiamo una serie di rocce e, superatole, affrontiamo un pendio ghiacciato più ripido del precedente. Mi sostengo sulla punta dei ramponi e sulla piccozza per salirlo, recupero il chiodo da ghiaccio prudentemente piantato da Alessandro che mi precede e in breve raggiungo la cima del Naso. Questa semplice arrampicata mi ha divertita e ha sciolto muscoli e articolazioni: sento ora il mio corpo muoversi armoniosamente, gambe, braccia, capo, in fluida coordinazione.
Questo mio sentire mi richiama l’immagine del magnifico Varenne che corre davanti a tutti: composto, efficace, bello, più di tutti gli altri. Una dinamica composizione della natura, perfettamente accordata in tutti i suoi elementi cangianti. Non che mi senta Varenne! È la sensazione che provo ora che è la stessa che mi suscita il vedere Varenne che corre.

La salita al Naso del Lyskamm
Scendiamo poi sul versante opposto del Naso, altrettanto ripido e ghiacciato, e mi avvalgo dei gradini che qualcuno ha scavato prima di noi, forse ieri.
Di nuovo sul piano, riprendiamo la nostra marcia in direzione del Corno Nero. Lo ammiro mentre ci avviciniamo: una bella montagna piramidale che punta diritta al cielo con la sua cima aguzza di roccia nero-rossastra e ghiaccio.
Verso il Corno Nero, 4322 m.
Il pendio è ripido, ma procediamo facilmente. Avvicinatici alle rocce, Alessandro decide di continuare sulla neve ghiacciata, fin dove arriva. La pendenza aumenta, ma ci sono delle buone tracce e mi ci appoggio. Raggiunto il limite della neve, ci spostiamo verso la cima. Ritraccio i passi di Alessandro sulle rocce fino a un punto in cui il mio passo è troppo corto per ricalcare il suo. Abbracciata la roccia, con un piccolo slancio riesco a fissare il rampone sinistro nel punto che mi ha indicato Alessandro e, richiamato il piede destro, mi porto in una posizione più stabile. Ora, sono solo pochi passi tra le pietre fino alla vetta e alla statua della Madonna.

L’avventura della salita tra ghiaccio e rocce fin quassù, sentire i ramponi penetrare nella neve ghiacciata e reggere il mio peso e poi, sulle rocce, la pietra trattenerne le punte trasformando in un attimo la mia sensazione di precarietà in una di stabilità, l’avanzare verso l’alto passo a passo, fino al punto culminante di questa montagna che da giù vedevo stagliarsi così decisa verso cielo mi hanno riempita di emozione.

Come sempre in simili situazioni, un ringraziamento fluisce fervido e intrattenibile da me. Ringrazio, ringrazio.

La salita al Corno Nero come appare dal Ludwigshöhe
Per scendere, ripercorriamo la stessa via tra le rocce fino alla neve. Preferisco ora voltarmi verso il pendio e fissare una dopo l’altra le punte dei ramponi e la piccozza mentre mi calo. Cerco di stare il più attenta possibile e di nuovo mi rendo conto di non essere contratta, il mio movimento è ancora sciolto e piacevole.
Apprestandoci alla discesa
Raggiunta la base del Corno Nero, lo osservo di nuovo da giù nella sua interezza e ora ne percepisco i dettagli e lo sento in me. È come se si fosse stabilito un legame, ci siamo conosciuti, mi ha lasciato passare fino alla sua roccia più alta.
È ora, a questo punto, di far visita a un altro dei suoi vicini.

Devo distogliere lo sguardo dal Corno Nero e puntarlo a sinistra verso la Ludwigshöhe semidistesa nel sole.

In questo momento c’è un gruppo di persone sulla sua cima, in fila una dietro l’altra, forse sono appena arrivate.

Avanziamo a un buon passo con facilità, la neve è soda e il pendio non è troppo ripido. Quando arriviamo in vetta, l’altro gruppo è ormai sceso, e noi siamo i soli lassù. Di nuovo l’emozione in questo ambiente grandioso. C’è solo silenzio in me, la totale assenza di tensioni e la sensazione di libertà, l’andare libera e il poter andare ovunque.
Ludwigshöhe, 4341 m.
Ripartiamo in discesa fino a riguadagnare il piano e continuiamo sul ghiacciaio. Avanzando, osservo per qualche momento la punta Parrot alla nostra destra: oggi ci limiteremo a passarle accanto.
Sul ghiacciaio
La nostra prossima meta è la Punta Zumstein. L’approccio non è particolarmente ripido, ma ora avverto un po’ di stanchezza. Sono tentata di andare direttamente al rifugio, ma il pomeriggio è ancora giovane e le mie gambe spingono ancora. Forse è solo uno di quei momenti passeggeri di debolezza che svaniscono bevendo un sorso d’acqua o sorbendo un po’ di zucchero e poi respirando profondamente l’aria fresca e trasparente, accaparrandosi tutto l’ossigeno che offre. Guardo la Zumstein: è lì, mi chiama con discrezione, bello sarebbe conoscerla… e ce la posso fare.

Alla base della nostra meta, scarichiamo gli zaini e attacchiamo la salita. Il primo tratto è su neve, e mi accorgo rapidamente come la pendenza aumenti sensibilmente a ogni passo. Mi sento forte e compatta, ma ora il fiato è davvero più corto. È la prima volta dall’inizio della giornata che sento un poco di affanno.
Salendo Punta Zumstein, 4563 m.
Mi fermo qualche volta sul tracciato verso le rocce della cima e, raggiuntale, le supero facilmente fino ad affacciarmi sul prossimo scenario. Un’altra visione grandiosa! Ci troviamo faccia a faccia con la Punta Dufour e la Nordend e, sul lato opposto, con Punta Gnifetti e il parallelepipedo scuro della Capanna Margherita; tutt’attorno, i picchi del massiccio, alcuni dei quali ho avuto il privilegio di calcare e conoscere da vicino.
Punta Dufour e Nordend

Ripartiamo dalla Zumstein; di fronte a noi, Punta Gnifetti e la Capanna Margherita

Cominciata la discesa, ci tiriamo da parte un momento per lasciare il passo a una coppia che sta salendo. “Mais c’est une escalade!” sbuffa la donna, seriosa. Alessandro sorride e tace.

Ripercorriamo la cresta, giù fino a recuperare i nostri zaini, e ora ci volgiamo a lei: Punta Gnifetti.

La salita non è lunga ma mi sembra ripida, incredibilmente ripida. Mi manca di nuovo il fiato, e stavolta anche le gambe sono fiacche. Chiedo varie volte ad Alessandro di fermarci, le gambe sono troppo affaticate per rispondere, i muscoli non riescono a recuperare dopo ogni contrazione per poter spingere ancora. Ma ogni volta, mi bastano pochi secondi per ripartire con una nuova, anche se breve, serie di passi.

Così, lentamente, arriviamo sulla cima di punta Gnifetti e alla scaletta della capanna Margherita!

È metà pomeriggio, c’è tempo per riposare, respirare, contemplare.

Mi sento bene.
Capanna Margherita su Punta Gnifetti, 4554 m.
Trovo la Capanna Margherita molto accogliente: c’è calore al suo interno, calore umano. Mi siedo a chiacchierare con Alessandro e qualcuno degli altri arrivati qui per la sera. C’è contentezza, un po’ di euforia, tanti sorrisi.
Telefoniamo a Flavia, che intanto ha raggiunto in sicurezza Gressoney e si è ripresa.


Tra chiacchiere e scambi di battute, non dimentico di tenere d’occhio da una delle finestre quello che sta succedendo là fuori, attenta a ogni cambiamento, seppur lieve, di luminosità. La giornata è stata limpida, ora il sole sta per tramontare…

Quando mi accorgo che lo spettacolo è imminente, esco sulla piccola terrazza.


Il buio, già calato a est, comincia a infiltrarsi anche dietro Punta Dufour, espandendosi gradatamente nella luce del sole, assottigliando sempre più quell’ultima striscia aranciata di cielo, fino a renderla infuocata.

Anche il ghiacciaio si colora per qualche istante, come un vetro trasparente tinto di un rosa purpureo.
In questo momento ci sono anch’io in questa bellezza. Per me insolita, stupefacente, ma in realtà normale, semplice.
Una delle due facce della medaglia, certo, ma ho la fortuna che sia questa faccia che mi si offre ora e che mi comprende. Ne faccio parte.

La notte è difficile dormire. Nella mia mente è ancora pieno giorno, le immagini della valle del Lys con le sue vette mi appaiono una dopo l’altra ripresentandomi dettagli che avevo notato, risvegliandomi emozioni. Rivivo tanti momenti, forse li sto assimilando, li sto scolpendo nella mia memoria per rianimarli ogni volta che una certa luce, un paesaggio, una salita, una montagna gli assomiglieranno.
Quando finalmente mi appisolo, è per risvegliarmi dopo poco all’improvviso, respirando con un sussulto come se fossi andata in apnea. L’effetto dell’altitudine.

Dormo poco e quando capisco che è ormai inutile tentare perché sento che sta arrivando il mattino, mi alzo e rivesto per scendere nella sala comune ad aspettare l’alba. Sono le 5 e in realtà c’è ancora buio. Seduta nella penombra del rifugio mi rilasso e ora mi sento piombare addosso un carico di stanchezza…! Penso alla giornata che sta nascendo, alle montagne che vorrò salire, al camminare, al sole. Cerco di scuotermi, se mi rilasso troppo sarà poi molto più difficile ritrovare il ritmo, mi mancherà il fiato ogni due passi, le gambe saranno zavorra da trascinare anziché leve di propulsione.

L’alba si palesa alle 5.30 come una linea rossa, in fondo nel cielo nero. Minuto dopo minuto, si fa più luminosa, diventa rosso-arancio e poi giallo-arancio e si allarga, diluendosi e sbiancando il cielo.
Sono le 6 ormai, il sole si è ampiamente annunciato ma ancora non si presenta, come ogni grande attore.
Io sono pronta a partire, vorrei già essere sul ghiacciaio e muovermi per rendermi conto di quanta forza ho oggi, di quanto potrò dare e ricevere. Ma Alessandro vuole proprio vedere spuntare il sole, tondo e luminoso, sull’orizzonte, prima di uscire. Rientro in rifugio per tornare fuori di tanto in tanto a dare un’occhiata, ma poi mi distraggo e mi dimentico di seguire l’evento e quando esco di nuovo, il sole è già sbucato del tutto e ha illuminato ogni cosa uniformemente.

La discesa dalla Capanna Margherita è molto ripida, e le mie gambe sono rigide! Fatico a camminare e avanzo lentamente, sperando che i muscoli si sciolgano in fretta. Sul piano, mi muovo ancora come un robot, ma presto sento di riacquistare fluidità e mi rinfranco.


Superiamo di nuovo il colle del Lys e in breve arriviamo alla base del Balmenhorn, con il Cristo delle Vette.

Balmenhorn, 4167 m., dalla Piramide Vincent

Lo sperone di roccia è attrezzato, e arriviamo in cima rapidamente utilizzando le staffe metalliche. Una scala d’accesso. “Come mai?” mi domando… Raggiunta la statua del Cristo, trovo una possibile risposta: questa montagna è considerata un piccolo santuario dove chiedere protezione e ricordare chi in montagna si è trovato, suo malgrado, a varcare una soglia definitiva.


I simboli religiosi sulle montagne, qualunque dio rappresentino, non mi irritano. Sono, prima di tutto, simboli dell’umanità. Una croce, una fila di bandiera di preghiera, un ometto di pietre, per me, si equivalgono, indicano l’Uomo e il suo complesso e agitato mondo interiore.
Il Cristo delle Vette allarga le braccia, ufficialmente impartendo una benedizione, per me, per richiamare tutto a sé, accoglierlo, confortarlo e proteggerlo, perché tutti abbiamo bisogno di coraggio, e anche questo è un modo per cercare di trovarlo.

Sul Balmenhorn

Spaziando con lo sguardo dal Balmenhorn, di nuovo mi soffermo sull’affascinante sperone del Corno Nero. Ritornano le emozioni di ieri, la sensazione di essere aggrappata sul suo pendio, lo slancio attento sulle rocce per continuare a salire, il mondo da lassù.

Ci prepariamo a lasciare il Balmenhorn, diretti alla Piramide Vincent, che Alessandro mi aveva descritto come un panettone. La osservo un momento prima di ritornare alla base del Balmenhorn, la sua cima da qui appare larga e arrotondata.


Verso la Piramide Vincent

Arrivati ai suoi piedi, lasciamo gli zaini e ci avviamo in salita. È un percorso facile e poco ripido, ma le mie gambe sono affaticate. Non mi voglio fermare però e, appoggiandomi su ogni passo con una cadenza regolare, riesco ad arrivare in cima in un’unica tirata. La cima si allunga piatta, e la percorriamo tutta fino ad affacciarci sul versante opposto. Si assottiglia un poco verso est, e i suoi bordi si protendono in una friabile cornice di neve.

Da qui, il panorama è ancora diverso: una serie di catene montuose che si susseguono, una dietro l’altra, sempre più azzurrine, fino a confondersi con il cielo, che, guardando in fondo assomiglia prima a una distesa di neve e subito dopo al mare. Sull’ultimo orizzonte, spuntano ancora, minuscole, altre cime, come isole lontane, con le loro storie e la loro vita.
Sul lato opposto, il grandioso Monte Rosa, distese ghiacciate, creste frastagliate, colli, vette, la Capanna Margherita…

Sulla Piramide Vincent, 4215 m., catene azzurre di monti fino all'orizzonte

Ritornati alla base della Piramide Vincent e ripresi gli zaini, attacchiamo la discesa.
All’altezza del Rifugio Mantova, Alessandro propone di lasciare il ghiacciaio crepacciato e seguire una via rocciosa attrezzata. Spezziamo così il ritmo noioso della discesa e riesco a rianimare la mia attenzione che stava pericolosamente diminuendo.
Arriviamo a un piano di pietra e da qui a una serie di rocce ghiacciate su cui rischio di scivolare e infine raggiungiamo la funivia di Punta Indren.


Sono stanca ed emozionata, piena di immagini impensate, di colori e sfumature, sono rinnovata.
Castore



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